«Non ho mai potuto fare il dirigente sportivo perché nel nostro Paese la competenza nello sport è un elemento di destabilizzazione». Pietro Paolo Mennea.

venerdì 6 febbraio 2015

Già cinque anni

Mescolava intelligenza, esperienza, diplomazia, anche rigore. Senza dimenticare che qualcosa si poteva sempre imparare, e che qualcosa si poteva sempre insegnare. Sono passati cinque anni da quel febbraio che se lo portò via, da quella passione – per un mondo lontano mille chilometri da quello della bicicletta – che se lo portò via. La bicicletta è semplicità, silenzio, spesso pazienza. Un rally è velocità, rischio costante, rumore a volte infernale. Era capace di salire in auto un tardo pomeriggio, farsi due ore di strada, parlare due ore ad una platea, venire ripagato con una cena un sorriso e un grazie, e ripartire per tornarsene a casa ch’era mezzanotte. Il giorno dopo lo trovavi alla corsa dei ragazzini, per darne il via o per premiare alla fine, perché lo aveva promesso al tal dirigente mesi prima. E quando partecipò ad una manifestazione ciclistica a Feltre capitò ch’era atteso sul palco e non arrivava più. “Ma dove sta?” Fermo fuori da un bar dopo un caffé preso al volo, a parlare di ciclismo con persone che non erano dirigenti, atleti, organizzatori, sponsor e ruffiani vari. Poi a diventar matto al volante, macinando migliaia di chilometri al mese, per seguire le gare che lo riguardavano da vicino, quelle coi Campioni che le correvano, quelle che lui doveva ‘leggere’ per capire come costruire la sua squadra, come gli altri forse avrebbero costruito le proprie. E poi sotto con la corsa juniores il giorno dopo, sempre mangiando chilometri senza sosta. Riusciva a costruire le squadre amalgamando capitani su capitani senza ripicche silenziose (vedi alcuni finali buttati malamente dalla Spagna), come faceva anni prima il vecchio Martini. E proprio come Martini le sue squadre vincevano o ci andavano sempre vicine. A un mondiale era stato tradito da un suo uomo che aveva fatto finta di non avere capito. Lui capi tutto. Senza troppi proclami quell’atleta non avrebbe più rivisto la Nazionale. Aveva rotto il suo concetto di gruppo, di squadra, di lavoro. Se un’atleta voleva correre un mondiale lui gli chiedeva risultati. Non voleva portarsi appresso un nome soltanto, ma un nome che facesse la differenza. “Da lui mi aspetto segnali importanti nei prossimi giorni”. Questo era quel che diceva ai giornalisti. Era il monito indiretto, l’avviso di chiamata. Poi, quando prendeva il telefono e parlava con quell’atleta, niente di più facile che fosse un po’ meno diplomatico e un po’ meno superficiale. S’innamoro di una corsa del Nord. La rincorse finché non la raggiunse due volte. Poi, quando dentro di sé disse “Ok, basta così…”, decise che sarebbe passato da questa per dire “Merci Roubaix!” scrivendolo sulla maglietta della salute che aveva sotto quella della sua squadra. Si può parlare di una persona, cercare di raccontarla in qualcosa senza farne il nome, senza dire cos’aveva vinto, cos’aveva fatto vincere? Ci si può provare.

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