«Non ho mai potuto fare il dirigente sportivo perché nel nostro Paese la competenza nello sport è un elemento di destabilizzazione». Pietro Paolo Mennea.

sabato 20 febbraio 2016

"Non sempre si vince, ma si può sempre correre bene con dignità"

Cinque anni e due mesi addietro moriva Aldo Sassi, ucciso da un infarto nei mesi in cui stava lottando contro un tumore al cervello. Aldo Sassi è la persona che aveva fatto del Centro Studi Mapei il cuore della sua passione professionale. Un centro di altissimo livello dove, tra le migliaia di atleti ed atlete che vi si appoggiavano, entrarono anche Ivan Basso e Riccardo Riccò. Sassi era certo che Basso poteva tornare ad alto livello e così fu, riuscendo a rivincere il Giro d’Italia nel 2010, successivo alla squalifica doping per i grossi guai scatenati dalle sacche di sangue dell’Operation Puerto, caso che scoppiò nel 2006. Basso si affidò a lui nel 2007, chiedendo di poter essere seguito nel suo “come back” ciclistico. Fu un caso senza precedenti per il fatto che mai, prima di allora, un atleta di così alto livello e talento ciclistico si affida ad un allenatore vero. Fu il calcio al formicaio, tanto che a Castellana la fila si allunga. Vi giungono anche Cunego e Riccò; il primo per capirci qualcosa, dopo alcune stagioni in cui la sua preparazione variava ogni anno, tanto da non raccapezzarcisi più, il secondo per riuscire a riemergere dal fango del doping. Doping su cui ricadrà, e l’unica cosa buona è che Sassi se n’era già andato, per risparmiare a quest’ultimo una delusione che sarebbe stata amarissima da sopportare. Aldo Sassi è il primo ad entrare nelle università italiane a insegnare ciclismo. Una cosa che molti suoi colleghi mal sopportano, non tenendo conto che si parlava di una persona che aveva conoscenze sull’allenamento che stavano facendo scuola. Uno che non si accontentava di basarsi sull’esperienza, ma vi aveva unito competenza estrema. Se conoscete persone che vi fanno una testa così con discorsi interminabili su allenamenti forza/resistenza, sulle salite “di forza”, che vi rompono le balle con discorsi infiniti sull’acido lattico, sul sovrallenamento, chiedete loro se sanno dirvi chi è stato l’uomo che ha concepito, perfezionato e approfondito più di chiunque altro queste cose.

lunedì 1 febbraio 2016

Febbraio, l'editoriale

“Ti fa bene, stati a contatto con la natura, ti diverti…..” e chi più ne ha più ne metta. Ma che in bicicletta puoi farti male si può anche dire, senza paura di rovinare l’immagine di uno sport.
“Il mese di gennaio ha registrato situazioni ciclistiche che hanno scritto e descritto di ciclisti finiti all’ospedale, ossa rotte, terapie intensive e cose di questo tipo. Questo perché lo sport ciclistico può essere uno sport molto pericoloso. I caschi spezzati (e meno male solo i caschi) non sono però un esclusivo appannaggio delle corse professionistiche. E non bisogna nascondere la pericolosità di una disciplina cercando di girare intorno alle cose, per paura di penalizzare una specialità sportiva impaurendo ragazzi e genitori che così ‘virano’ per altri lidi sportivi. La bicicletta, come altre discipline non per forza motoristiche, può rivelarsi uno sport pericoloso. Il casco si usa, il pneumatico usurato lo si cambia, gli occhi devono essere sempre svegli lungo le strade. Consigli che sono roba dozzinale, niente di chissà quanto nuovi, anzi. Cose che si dovrebbero applicare su cento momenti che viviamo nel quotidiano. Con il ciclismo ti puoi ammazzare, come con l’automobilismo, con una caduta da cavallo, con il motociclismo, con lo sci di velocità o scivolando mentre esci dalla doccia. Un praticante consapevole di quello che fa ha più probabilità di rimetterci solo un casco e una maglietta che forse non la testa. Se invece vogliamo raccontare solo le storie del Mulino Bianco buonanotte”.