«Non ho mai potuto fare il dirigente sportivo perché nel nostro Paese la competenza nello sport è un elemento di destabilizzazione». Pietro Paolo Mennea.

martedì 1 novembre 2016

Novembre; l'editoriale

In Italia un professionista su tre paga per correre. Ma non per formazioni World Tour. Lo fa per correre in squadre di secondo piano a livello nazionale.
“Tutti a nanna. Finita la stagione ciclistica le bici si ripongono. Spazio a cose che riguardano la bicicletta quindi, e vai a sapere come continuerà la questione riguardante la scoperta che in Italia si paga per fare il ciclista. Ragazzi che davanti alla richiesta di una ‘collaborazione’ sul fronte economico hanno fatto le valigie per l’estero, Accordi pluriennali a parole, ma stabiliti sulla carta da contratti annuali, eventualmente rinnovati di stagione in stagione. Si consegna la copia relativa al primo anno e per i successivi buona fortuna. Risultato? Che alle corse prendono il via formazioni di modesta caratura, rappresentate da corridori figli di famiglie facoltose, ma che dal punto di vista tecnico vivacchiano nella mediocrità ciclistica rendendo l’anima su una salita di due chilometri, o ritirandosi da un Giro dopo quattro tappe, di cui un prologo, due per velocisti e un giorno di riposo dopo la terza frazione. Ecco, questo ciclismo difficilmente verrà raccontato all’appassionato, perché quest’ultimo non deve sapere che la ‘grande famiglia del ciclismo’ ha tanta roba che viene ammassata sotto al tappeto.”

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