«Non ho mai potuto fare il dirigente sportivo perché nel nostro Paese la competenza nello sport è un elemento di destabilizzazione». Pietro Paolo Mennea.

domenica 23 dicembre 2012

Il ciclismo davanti al caminetto (9^ p.)

SE IL CICLISMO NELLE SUE COSE FONDAMENTALI NON HA PATITO MOLTI CAMBIAMENTI, LO HA FATTO TANTO NEL COME VIENE RACCONTATO E PROPOSTO. CHE SIATE CICLISTI CAMPIONI O CHE SIATE CICLISTI PST.
L’inverno dei ciclisti che corrono è finito. Il mio invece sarà lungo ancora un mesetto. Solamente dalla seconda metà di gennaio tornerò a curiosare sul termometro pronto a cogliere l’eventuale occasione. Il periodo che preferisco nell’annata ciclistica non è solamente quello legato al Giro, ma anche quello legato alle prime giornate assolate di febbraio. Essendoci un sole che riscalda poco, quel poco te lo cerchi e quando lo trovi te lo godi appieno. Grazie (grazie?) al mio inverno senza bicicletta, o roba che gli somigli, le gambe di febbraio sono dure, doloranti, piangenti. Così è un lento ripartire da zero, un cancellare la mia lavagna ogni sera, sapendo che la mattina dopo dovrò ricominciare. Perché? Per non dimenticare come si comincia. Penso al “vecchio” ciclismo, quello che fino a metà anni ’90 aveva una stagione molto più semplice nel suo disegno. Le squadre si ritrovavano a metà dicembre, visite mediche, vestiario, misure della bici, qualche pedalata ma poca roba. Iniziavano a lavorare veramente con l’arrivo di gennaio, pedalavano insieme per una decina di giorni poi, in base al calendario di gare scelto dall’atleta, già si lavorava in maniera specifica. Se puntavi alla Sanremo e a qualche classica di Aprile eri in sella prima degli altri compagni di squadra. Iniziavi a carburare forte alla Parigi-Nizza, oppure alla Tirreno-Adriatico se decidevi per l’Italia, perché avevi già cominciato a macinar chilometri da un pezzo. Negli anni del ciclismo in bianco e nero l’inverno ciclistico durava anche un paio di settimane in più, perché le gare non arrivavano prima di marzo. L’australiano Tour Down Under, il sudamericano Giro di San Luigi nemmeno esistevano. Nemmeno la Corsa dei 2 Mari è così antica (1966). Venne pensata anche allo scopo di dare un periodo di corse ai nostri campioni, per permettergli di avere una bella condizione senza dover andare a fare la Parigi-Nizza.
Anche il raccontare il ciclista durante l’inverno era cosa diversa. Oggi, per accettata comodità di tutti, squadre e stampa, la squadra Tal dei Tali fa sapere che il ritiro si terrà dal giorno tot al giorno tot, nella località Vattelapesca. Vengono organizzati un paio di giorni da ”aprire” alla stampa, in cui i ciclisti sanno che saranno a disposizione più che gli altri giorni. Così i giornalisti inviati si ritrovano a dover intervistare tre o quattro ciclisti nell’arco di poche ore. A casa dell’atleta si va meno, anche perché appena finita la stagione i ciclisti stessi spesso partono dopo pochi giorni e vanno a farsi due o tre settimane di vacanza, andando a cercarsi il mare che solitamente devono saltare in estate. A meno che non abbiano figli che vanno a scuola, dove chiaramente tutto cambia. Un tempo capitava spesso che i ciclisti preferivano restare in casa, perché con le corse giravano l’Europa per 9 mesi e ne avevano – comprensibilmente, a pensarci – piene le scatole di andare a zonzo anche quando non correvano. Ma anche perché lo stipendio di una bella stagione serviva per comprare casa, altro che la macchina da 2.500 o passa di cilindrata! Sono cambiate anche le riviste del ciclista della domenica, con quest’ultimo razza ormai in estinzione. Cambiate non in tutto ma certo in tanto: nei servizi, oggi guardati molto alla competizione e alla preparazione ad essa (se si dovesse seguire alla lettera le tabelle di allenamento proposte, una persona non potrebbe nemmeno avere un lavoro), nel modo di impostare le pagine di pubblicità lavorando psicologicamente con frasi e slogan verso un prodotto che parlano di vittorie, di limiti da superare, per far credere al ciclista della domenica che può fare le stesse cose del campione, quindi prodotti alimentari usati dal professionista (nella foto 1 no di certo!), biciclette, vestiario, strumenti, allenamenti il più possibile uguali al professionista. Emulazione (e una barca di soldi). Fin dalle copertine delle riviste. La copertina, quella che vediamo sulla scansia dell’edicola, è la prima presa di contatto con il lettore. Avete in casa vecchie riviste della prima metà degli anni ’90? Troverete molto più sovente immagini di ciclisti sorridenti, decisamente rilassati nel loro proporsi in bicicletta (e magari con un fisico non perfettamente ciclistico…), mentre con il passare degli anni siamo passati a foto scattate in momenti di una certa intensità agonistica durante le corse stesse. Visi più seri, contratti, rappresentanti un essere umano molto preso dalla concentrazione, dalla tensione, dalla fatica del momento. “But the times, they are a changin…” cantava un tizio che ogni tanto strimpella ancora…

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